In queste ultime settimane l’Egitto e i suoi circa 84.550.000 abitanti parrebbero dilaniati da due forze uguali e contrarie che non cessano di esercitare pressione su un paese già in ginocchio. Da un lato una sorta di forza centrifuga verso una qualche forma di cambiamento, evidente nel susseguirsi ininterrotto di avvenimenti eclatanti e in parte contraddittori, dall’altro una forza centripeta che, a prima vista, sembra gettare il paese indietro nel tempo, verso uno status quo precedente alle dimissioni di Hosni Mubarak dell’11 febbraio 2011.
Il quadro complessivo che emerge dall’interazione di queste due forze e dall’interpretazione che di esse ne danno i vari attori in gioco non può essere sottovalutato da nessuno, e merita invece di essere lucidamente analizzato nelle sue cause e nelle possibili conseguenze che delineeranno, nel bene e nel male, una nuova fase della vita politica di uno tra i paesi africani a noi più vicini, non solo dal punto di vista geografico.
L’Italia ospita più di 90.000 egiziani, senza contare gli appartenenti alle seconde o, in qualche caso, terze generazioni già in possesso della cittadinanza italiana, e gli sbarchi di questa estate sulle coste meridionali stanno facendo crescere tale numero. E’anche per questa ragione che la mediterranea Italia, per certi versi ancora prima di Stati Uniti ed Unione Europea, deve sviluppare la lucidità politica adeguata a comprendere le complesse dinamiche oggi in fieri nel paese di provenienza di questi migranti, abbandonando la cronaca sui tanti turisti italiani tratti prontamente in salvo dai discutibili pericoli presenti nei lussuosi alberghi sul Mar Rosso, e ascoltando invece le voci di chi è egiziano qui ed ora. Occorre acquisire la consapevolezza che sponda sud e sponda nord del mare nostrum sono oggi più interdipendenti di quanto siano portati a pensare molti italiani.
Le ultime, concitate settimane
A seguito delle numerose proteste degli ultimi mesi della presidenza di Mohamed Morsi, il primo luglio 2013 il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Abd el-Fattah el-Sisi legge alla televisione di stato Ertu il comunicato contenente un ultimatum a Morsi ed al suo partito Hurriyat wa ‘Adala, Libertà e Giustizia, sollecitandolo ad assumersi le proprie responsabilità e rispondere alle richieste del popolo in tempi molto rapidi. L’invito non troppo velato è a dimettersi.
La scadenza dell’ultimatum è prevista per le ore 17.30 di martedì 2 luglio, ma poco prima di questo termine Morsi rifiuta di dimettersi ed apre invano ad un governo di coalizione per arrivare alle prossime elezioni, nonché alla formazione di un commissione indipendente per la modifica della Costituzione, che proprio lui aveva rinnovato autonomamente a sua favore nel dicembre 2012.
Le adunate degli oppositori di Morsi proseguono, raggiungendo numeri a dir poco differenti a seconda che si guardi alle fonti dei militari o a quelle dei Fratelli Musulmani: in piazza vi sarebbero 17 milioni di persone secondo l’esercito, 500 mila secondo l’organizzazione fondata nel 1928 da Hasan al-Banna.
Mercoledì 3 luglio Mohamed Morsi, primo presidente democraticamente eletto dell’intera storia egiziana, viene deposto e messo in stato d’arresto, la Costituzione sospesa, e il presidente ad interim è ora Adli Mansour, già Presidente della Suprema Corte Costituzionale.
Dopo alcune ore nelle quali piazza Tahrir viene inondata dalla gioia degli oppositori del presidente deposto, gli scontri tra questi ultimi e coloro che invece accusano i militari di un golpe illegittimo ed antidemocratico si riaccendono al Cairo, ad Alessandria, ad Ismailia, a Tanta, per poi propagarsi velocemente ed arrivare, seppur in forma ridotta e più pacifica, fino alla città turistica di Hurgada, sulla costa africana del Mar Rosso.
Dopo aver atteso la fine dei festeggiamenti per l’Eid al-Fitr, la festa di rottura del digiuno che conclude il mese sacro di Ramadan, l’esercito proclama un nuovo ultimatum, questa volta ai manifestanti pro-Morsi nelle piazze, e promette che inizierà a sgombrare i presidi degli oppositori a partire dall’alba dell’11 agosto.
I manifestanti resistono ed il 14 agosto il mondo è stato spettatore, più o meno sorpreso, più o meno obiettivo, della giornata più sanguinosa dell’Egitto post-2011.
Le cifre sui morti e sui feriti divergono enormemente a seconda delle fonti, nonché delle differenti affiliazioni politiche dei mass media. La TV araba Al-Jazeera, emittente qatarina vicino ai Fratelli Musulmani, sta adottando una copertura delle notizie dall’Egitto diametralmente opposta a quella della televisione di stato Ertu e delle altre emittenti egiziane ormai sotto il totale controllo dei militari. Entrambe le parti danno informazioni tanto sbilanciate e parziali, sia dal punto di vista della qualità che da quello della quantità, da rendere impossibile accordargli fiducia.
A seguito di questa giornata di morte, il premio Nobel per la Pace Mohamed el-Baradei, vicepresidente del governo ad interim dallo scorso tre luglio, si dimette per dissociarsi dalla violenza della repressione militare. L’ex presidente dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica si trova attualmente a Vienna e su di lui grava un’accusa di tradimento della quale dovrà rispondere alla giustizia egiziana.
Pochi giorni dopo, lunedì 19 agosto, non lontano dal valico di Rafah sul confine con la Striscia di Gaza un commando di 11 uomini con un pickup uccide 25 poliziotti egiziani appena congedati, mentre al Cairo nella notte dello stesso giorno i militari proseguono i già numerosi arresti di Fratelli Musulmani, fermando anche l’anziana guida suprema Mohamed Badia’ ed il portavoce dei sostenitori di Morsi, Yussef Talaat.
Nel tardo pomeriggio del 22 agosto ha luogo l’ultimo dei grandi sconvolgimenti avvenuti in Egitto nell’estate 2013: Hosni Mubarak viene liberato e portato via in elicottero dal carcere di Torah Mahkoum, lo stesso nel quale sembrerebbe invece rinchiuso Mohamed Morsi. Secondo il suo avvocato Farid El-Dib, la scarcerazione dell’ex-presidente ottantacinquenne è dovuta semplicemente al fatto che sono passati 18 mesi, limite massimo della carcerazione preventiva secondo il codice penale egiziano. Mubarak è ora in libertà condizionata e domenica 25 agosto c’è stata l’udienza per alcune accuse di corruzione non ancora cadute e soprattutto per quella di aver autorizzato l’uccisione di circa 900 manifestanti durante le proteste di gennaio-febbraio 2011 contro il suo regime, accusa per la quale era stato condannato all’ergastolo in un processo annullato però dalla Corte di Cassazione ed ora dunque da rifare.
Silenzio egiziano o disinteresse italiano?
In questo congestionato scenario, quello che risulta evidente è il fatto che, pur con modalità, azioni, maturità politica e concezioni della democrazia assai eterogenee, il popolo egiziano stia facendo sentire la propria voce da ormai quasi tre anni. Se come sostiene Germano Dottori, docente di Studi Strategici presso l’università LUISS di Roma, “il genio è ormai uscito dalla lampada”, è principalmente grazie al popolo egiziano.
A seguito di tali considerazioni viene dunque spontaneo rilevare che gli egiziani in patria non sono nettamente diversi da quelli che invece hanno intrapreso un progetto migratorio.
La voglia di far sentire la propria voce su ciò che avviene nel paese d’origine non scompare una volta che ci si è trasferiti all’estero.
Eppure il silenzio sulle modalità attraverso le quali la comunità egiziana in Italia vive uno dei periodi di maggiore svolta del proprio paese è quasi totale.
Lasciando da parte la questione delle possibili motivazioni di questo disinteresse, è indispensabile evidenziare come esso sia quasi uniforme a livello politico, giornalistico ed associazionista, e come esso costituisca un’occasione mancata di dialogo effettivo ed efficace con una delle componenti migratorie più numerose tra quelle presenti in Italia.
Secondo statistiche ISTAT relative al 2010, gli egiziani in Italia erano, già due anni fa, 90.365, ed il tasso di incremento annuo di tale cifra tra il 2006 e il 2010 si è sempre aggirato intorno al 10% , per poi salire ancora a seguito degli sconvolgimenti politici in patria.
La regione con la maggiore presenza egiziana è la Lombardia, con ben 64.488 individui, distribuiti soprattutto nell’area di Milano, prima città in Italia, e delle città circostanti, si pensi che Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo e Monza sono rispettivamente la quarta, la settima e la decima in Italia per numero di migranti dall’Egitto.
E’una migrazione piuttosto antica per il nostro paese, ha avuto infatti inizio già negli anni Settanta, interessando soprattutto giovani della classe media durante un periodo nel quale la politica di iftitah (“apertura”) del presidente Anwar Al-Sadat rendeva piuttosto facile l’uscita di persone dal paese, individui che poi non trovavano particolari ostacoli nemmeno al momento dell’ingresso in territorio italiano.
Sotto l’aspetto confessionale, la maggioranza dei migranti è di fede musulmana, ma anche la presenza di cristiani copti è oggi rilevante; il calcolo risulta nettamente più semplice in Egitto, dove i musulmani rappresentano poco meno del 90% della popolazione. A facilitare il reperimento dei dati nel paese d’origine c’è anche il fatto che la religione di ogni individuo debba per legge essere scritta sul documento di identità. Sebbene ad inizio 2012 un gruppo di giovani attivisti egiziani avesse diffuso sul web la campagna Non sono affari tuoi, durante la quale, allo scopo di protestare contro questa legge, questi studenti applicavano al posto della voce “religione” un adesivo con questa dicitura, per ora niente è cambiato.
Uno scenario tanto eterogeneo come quello costituito dalla comunità egiziana in Italia non può dunque essere né statico, né monolitico, né tantomeno disinteressato a ciò che accade in Egitto.
Per questa ragione è di fondamentale importanza esaminare le posizioni delle diverse componenti di questa comunità, chiedendosi se e quali conseguenze ciò che accade in Egitto può avere al suo interno.
Voci egiziane in Italia
Sulla crisi egiziana è necessario distinguere nettamente due tipi di voci all’interno della comunità egiziana in Italia: quella dell’associazionismo, per lo più di matrice religiosa musulmana che riunisce credenti di origine non solo egiziana oltre a molti convertiti italiani, e quella dei singoli migranti di prima e seconda generazione non appartenenti ad alcuna associazione.
Per quanto riguarda la prima voce, essa si presenta maggiormente istituzionalizzata, compatta, univoca nelle sue posizioni. Questo non significa affatto che all’interno delle varie organizzazioni non ci siano un fecondo dibattito ed un frequente scambio di idee, bensì che, a seguito di tali sforzi comunicativi interni, le diverse associazioni cercano poi di raggiungere una posizione quanto più chiara ed uniforme possibile, presentandosi come correnti intellettuali compatte davanti agli scenari di crisi nei quali è immersa gran parte del mondo arabo.
La posizione delle associazioni musulmane in Italia è di netta e decisa condanna verso quello che viene uniformemente definito un colpo di stato illegittimo da parte dei militari contro un presidente democraticamente eletto.
L’associazione che si è espressa più fortemente delle altre è indubbiamente l’UCOII, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, il maggiore organismo dell’Islam italiano, il quale ha assorbito anche l’USMI, l’Unione degli studenti musulmani in Italia. In un comunicato dell’associazione risalente all’8 luglio 2013, successivo dunque alla destituzione di Morsi ma precedente alle giornate di violenza cieca di metà agosto si legge:
<< Quando le Forze Armate di un Paese, travalicando funzioni istituzionali che la Costituzione gli attribuisce, forti dei mezzi di cui lo Stato le ha dotate per difendere il popolo e la nazione, intervengono pesantemente nel contesto politico, si configura quello che è noto come colpo di Stato. Questo è quello che è accaduto in Egitto dove un presidente democraticamente eletto dopo una rivolta che aveva cacciato un autocrate corrotto e squalificato, è stato destituito manu militari e la costituzione voluta e votata dal popolo è stata annullata. Il grande movimento verso la democrazia reale che le masse arabe hanno interpretato con coraggio e sacrificio negli ultimi tre anni subisce così un brutale arresto e molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo sono stati arrestati o sono ricercati>>.
In seguito si chiede esplicitamente all’esercito egiziano di fare marcia indietro:
<< Mentre esprimiamo tutta la nostra solidarietà al legittimo presidente della Repubblica Araba d’Egitto, ne chiediamo l’immediata liberazione e il reintegro nella funzione che il popolo gli aveva affidato >>.
Il lungo comunicato si chiude con un appello rivolto agli egiziani di qualsiasi religione e di qualsiasi tendenza politica ad individuare prontamente un percorso non violento per uscire dalla situazione che si è venuta a creare in Egitto.
Il punto di vista della galassia di associazioni istituite su base religiosa, storicamente molto vicine ai Fratelli Musulmani, è cristallino. Gli elementi più significativi del discorso dell’UCOII sono quelli inerenti alle masse arabe e ai molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo.
Per quanto riguarda il primo nodo cruciale del comunicato, è da notare come esso riveli un tentativo di allargare improvvisamente l’orizzonte interpretativo della questione, spostandola su uno scenario geopolitico assai più ampio di quello egiziano e contrapponendo ai militari del paese non più soltanto i manifestanti pro-Morsi, ma addirittura le masse arabe, con un richiamo non troppo velato alla Umma, la comunità musulmana che travalica i confini nazionali. Tale strategia discorsiva, basata su un uso strumentale del Noi, degli Altri e delle rispettive quantità, è attuata al fine di rafforzare la propria posizione: il golpe è tanto ingiusto da contrastare non solo la volontà degli elettori di Morsi, ma tutto l’intero grande movimento verso la democrazia che negli ultimi tre anni le “masse arabe” hanno attuato.
Se è innegabile che di golpe si possa parlare e che le elezioni che hanno visto Mohamed Morsi vincitore siano state le più corrette dell’intera storia egiziana, è però altrettanto necessario evidenziare che i manifestanti pro-Morsi non coincidono assolutamente in toto, né per numero né per posizione politica né tanto meno per mezzi utilizzati, con i milioni di giovani che negli ultimi tre anni hanno inondato le piazze del Vicino Oriente.
E’ dalla semplificazione eccessiva e strumentale del discorso che bisogna guardarsi, non dai contenuti, opinioni legittime ed ampiamente condivise in Egitto e all’estero. Circa il concetto di “masse arabe”, è interessante inoltre notare come esso abbia un paradossale sapore spiccatamente eurocentrico, se si pensa che uno dei fili conduttori dell’orientalismo europeo tanto avversato dal compianto scrittore palestinese Edward Said è stato, e in molti casi è tuttora, la rappresentazione degli orientali come massa, orda informe e omogenea, contrapposta all’individuo occidentale, essere autonomo e dotato di identità propria, unica e irripetibile.
Sul secondo nodo cruciale del comunicato dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ovvero sui molti integerrimi cittadini appartenenti al partito di governo arrestati e ricercati, è legittimo sollevare dei dubbi.
Il 16 agosto Amnesty International rilascia un comunicato stampa riguardante la condotta dei sostenitori di Morsi in Egitto dal titolo Prove rivelano che sostenitori di Morsi hanno torturato manifestanti in Egitto. Il comunicato cita, con nomi e cognomi, testimoni che lamentano di essere stati catturati, picchiati ed in alcuni casi sottoposti a scariche elettriche ed accoltellati dai pro-Morsi. “Le accuse di tortura avanzate da alcuni individui sono estremamente gravi e devono essere approfondite con urgenza” dichiara Hassiba Hagg Sahraoui, direttore di Amnesty International per Medio Oriente e Nord Africa.
Anche il celebre scrittore egiziano Ala Al-Aswani, nel 2011 in piazza Tahrir ad attendere la caduta di Mubarak e da sempre avverso ai Fratelli Musulmani, si esprime chiaramente riguardo a tale movimento: << La differenza tra la Fratellanza ed Al-Qaeda è nel grado, non nella natura. I Fratelli rispetto al movimento terroristico internazionale hanno un doppio volto: una componente tattico-politica e il terrorismo in tasca >> .
Si è detto in ogni caso, che la posizione delle organizzazioni musulmane in Italia non esaurisce l’ampio spettro di idee e opinioni che è possibile riscontrare nei migranti egiziani nel nostro paese, i quali, se intervistati, rivelano una notevole varietà di punti di vista.
Alla richiesta di fornire un’interpretazione dei recenti avvenimenti nel paese d’origine, le risposte si sono collocate lungo un continuum tra << Un colpo di stato e una rivoluzione, quella del 25 gennaio 2011, mai completata o per meglio dire fallita >> (Bsant, 24 anni, assistente ai clienti esteri presso un corriere espresso) a << Trovo la cacciata di Morsi necessaria ma vista la politica dei FM io personalmente mi aspettavo una reazione del genere: sin dal ballottaggio tra Morsi e Shafiq, prima degli esiti i maggiori esponenti dei FM avevano promesso di dar fuoco all’ Egitto in caso di mancata vittoria di Morsi >>. (Omar, 27 anni, libero professionista).
Interpellati sui sentimenti secondo loro più diffusi tra il popolo egiziano, le risposte sono state significativamente più uniformi, anche tra persone con posizioni diametralmente opposte: << Penso provino sia rabbia, che dolore, che speranza: rabbia per una meraviglia quasi distrutta, l’Egitto, dolore per gli innocenti brutalmente massacrati e speranza perché ognuno di noi ci spera >> (Sarah 25 anni, impiegata nel settore delle Risorse Umane)
<< L’Egitto prova rabbia perchè è un paese pieno di risorse e ricchezza ma non è in grado di sfruttarle al meglio >> (Mahmud, 31 anni, receptionist) << L’Egitto ha speranza, perché dobbiamo sperare sempre, perché se muore la speranza moriremo anche noi >>. (Mohamed, 27 anni, receptionist)
Se, come scrive la pensatrice libanese Jumana Haddad, la rassegnazione è uno dei mali più contagiosi al mondo, gli egiziani non ci sono dunque ancora arrivati, ci sono però pericolosamente vicino: << Speranza c’è sempre, ma non so quanto durerà >>. (Bsant, 24 anni, assistente ai clienti esteri presso un corriere espresso)
Anche il quesito con il quale si chiede se l’Egitto sia o meno una democrazia ha ricevuto risposte decisamente negative da ogni schieramento, accompagnate però dalla ferma convinzione, altrettanto diffusa, che possa arrivare ad esserlo: << Penso che l’ Egitto abbia appeso il cartello “lavori in corso” ma in passato di democrazia ce ne è stata poca. Io penso che il popolo sia pronto alla democrazia ma fino ad ora non c’è mai stato un governo che l’ abbia applicata >>. (Omar, 27 anni, libero professionista).
Per quanto riguarda l’aspetto delle potenziali ricadute che le tensioni nel paese d’origine possano avere nella comunità egiziana in Italia, i pareri sono in maggioranza ottimisti: << No, non credo. Qui siamo un po’ più aperti… >> (Mohamed, 27 anni, receptionist), e ancora: << Non ho notato niente del genere. Al massimo gli italiani vedendo in TV ciò che succede chiedono chiarimenti agli egiziani >>. (Milad, 55 anni, imprenditore)
Una tendenza ampiamente diffusa, tanto in Egitto quanto in contesto migratorio, è infine quella a non attribuire la minima fiducia all’operato dei mezzi di comunicazione arabi e alla loro imparzialità. E’ infatti ormai noto ad ogni egiziano il fatto che le emittenti nazionali sono sotto il completo controllo dei militari e che, dall’altra parte, il colosso televisivo di Doha Al-Jazeera è nettamente schierato al fianco del deposto presidente Morsi, al quale non più tardi del gennaio 2013 aveva donato, con l’obiettivo di “salvare l’Egitto”, almeno 2,5 miliardi di dollari. In quanto popolazione composta in gran parte da giovani altamente scolarizzati e dotati di dimestichezza con le nuove tecnologie, gli egiziani d’Italia preferiscono dunque sovente informarsi in rete.
L’intricato intreccio di interessi in gioco in Egitto in quanto area di vitale importanza strategica continua a complicarsi. Gli sviluppi più recenti, primo tra tutti il quasi annientamento del movimento degli Ikhwan Al-Muslimun, costringono le potenze mondiali, Stati Uniti in primis, a rivedere profondamente le proprie strategie ed alleanze nel Vicino Oriente. In tutto questo gli egiziani, pur con ingenuità, semplificazioni, eccessi e interpretazioni di parte, non accettano più di essere trattati come una massa informe da chi, in patria e dall’esterno, lo ha fatto troppo a lungo. Prendere atto di tale cambiamento attraverso una presa di coscienza non soltanto di facciata potrebbe costituire la soluzione per evitare che le carte degli eventi si ribaltino nuovamente davanti ai nostri occhi cogliendoci ancora una volta impreparati.