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IL RISVEGLIO DELLA MITTELEUROPA: IL CASO MAGIARO ED IL GRUPPO DI VISEGRÁD

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In Europa si continua a parlare di spending review, spread ed elezioni primaverili, eppure c’è, fra i ventotto membri dell’Unione, un paese che potrebbe sorprenderci tutti.
La rinascita economica ungherese nell’ottica del rafforzamento dell’alleanza centro – orientale. 
   
 
 

È fatto ormai assodato che la vita economico – finanziaria europea volga sempre più spesso il suo sguardo verso il quadrante orientale del proprio continente, instaurando relazioni indubbiamente fruttuose con quegli stati, come Polonia e Croazia, che, da quasi un decennio, scalpitano furiosamente per entrare nel novero delle grandi economie dell’Unione.
A sorprendere osservatori ed analisti, però, con i suoi grandi progressi e la capacità d’attrarre ingenti capitali stranieri, non è stato un paese “amico” come uno fra quelli appena citati, ma la “nemica” Ungheria, spesso al centro di polemiche e battaglie in seno all’Assemblea di Bruxelles in merito ad accuse su metodi sbrigativi ed autoritari del suo governo, solido nelle mani di Viktor Orbán, personaggio che più volte ha fatto scalmanare politici ed opinione pubblica occidentali per alcuni progetti di legge (poi approvati all’Országház) ritenuti anti–liberali e anti–democratici, oltre che per le sue prese di posizione spesso bollate dalla stampa come “nazionaliste” e “euroscettiche”.
Al centro della rinascita economica ungherese giace la cosiddetta “new innovation strategy” teorizzata da Zoltàn Csefalvay, attuale Ministro dell’Economia, la cui ricetta, sostanzialmente, punta ad attirare le eccellenze dell’industria europea (da quella automobilistica a quella elettronica, passando per importanti settori come quelli legati al mondo della ricerca e dello sviluppo scientifico), al fine di creare quella tanto agognata classe media magiara (borghese e nazionale) in grado di trasformare un paese, di fatto in via di sviluppo, in una autentica potenza regionale.
 
 

Alcuni dati 
 
La recente apertura, ad esempio, del Centro CERN a Budapest (il cui data center, capace di trasferire dati alla sorprendente velocità di 100 gigabit al secondo, ha battuto la concorrenza di ben 16 candidati in altri 9 paesi membri) non costituisce che l’ultima vittoria della volontà, più volte espressa dallo stesso Orban, d’implementare vasti settori dell’elettronica nazionale e del settore Research and Development; una vittoria ancor più brillante, questa, se si pensa che, proprio in quei giorni, la Commissione Europea ha ritirato la procedura d’infrazione contro Budapest per disavanzo e debito sovrano, sceso nel 2013 al 2.7% e stimato, nel 2014, al 2.2%, ben al di sotto, per dirne uno, del disavanzo pubblico francese, in rialzo al 4.8%.
Che qualcosa si stia ridestando, nelle verdi pianure danubiane, è un dato certo; non deve sorprendere, pertanto, se Audi, colosso dell’industria automobilistica mondiale di stanza ad Ingolstadt, abbia deciso di investire oltre 900 milioni di euro nel suo nuovissimo stabilimento a Gyoer, a metà strada fra la capitale ungherese e Vienna, dove si conta di produrre oltre 125mila nuovissime A3 entro la fine dell’anno.
Stesso discorso, poi, può esser fatto per la Mercedes – Benz, che ha da poco aperto un suo nuovo impianto industriale a Kecskémet, ad appena novanta chilometri a sud di Budapest, destinandolo alla produzione della sua Classe A (cosa che, di conseguenza, ha portato alla creazione, su suolo ungherese, di parallele piccole industrie in grado di produrre materiali d’alta tecnologia e d’elettronica avanzata).
Gli esempi potrebbero andare avanti ancora a lungo, spaziando dagli investimenti qualificati di Nokia ed IBM a quelli effettuati da Sanofi e Tata, ma non è certo questa la sede per una simile, vasta, disamina; preme, però, evidenziare, ai fini dell’analisi, quali siano quei fattori che, per disponibilità e costi, si presentano come carte vincenti della rinascita, non solo economica, ma nazionale, ungherese.
Impossibile, in questo caso, non sottolineare l’importanza della posizione geografica dell’Ungheria rispetto al quadrante europeo: arroccata nel cuore di una regione capace di fungere da ponte ideale fra le emergenti nazioni dell’ex blocco orientale e i moderni paesi del settore occidentale, l’Ungheria, difatti, può vantare una posizione di certo invidiabile, ma che appare ancor più vantaggiosa se messa in relazione alla moderna rete infrastrutturale di cui è dotata, capace di collegarla, in breve tempo, alla colonna portante dell’economia europea: la Germania.
Si aggiungano, a questi due fattori, quello della manodopera a prezzi stracciati (il salario medio ungherese è, secondo dati ormai noti, pari ad un terzo di quello polacco) e quello dell’elevata preparazione accademica, in grado di produrre quadri direttivi competitivi e acculturati, ed ecco svelato il mistero.
Conseguenza di una simile combinazione è l’aumento, solo nel primo trimestre del 2013, dello 0.7% del PIL nazionale.
Un risultato di certo incoraggiante, per le autorità centrali.
 
 
Prospettive
 
A questo punto, sembra piuttosto evidente quanto, nei prossimi tempi, possano diventare sottili gli equilibri di forza all’interno dello scenario europeo.
Due, al riguardo, sono gli spunti d’analisi forniti da un simile contesto: il primo è squisitamente geoeconomico, mentre il secondo è di tipo geopolitico.
Per quanto riguarda la prima questione, parlare di “resurrezione” non solo dell’Ungheria, ma dell’intera Europa danubiana, quella definita nel 2010, dalle Nazioni Unite, come «un Occidente abbandonato, o un luogo in cui Est ed Ovest collidono» non sembra più essere inappropriato.
Gli stessi, recenti, successi economici slovacchi, cechi e polacchi, oltre che ungheresi, smentiscono ampiamente le tesi dei molti che, nonostante tutto, rimangono ancorati ad una rigida ripartizione fra Ovest – sviluppato / Est – retrogrado.
Il risveglio della Mitteleuropa è ormai sotto gli occhi di tutti e le conseguenze di questa “improvvisa” presa di coscienza graveranno proprio sui paesi dell’area meridionale del continente europeo, come Italia e Spagna, in primis, definitivamente tagliati fuori dai giochi decisionali dell’asse franco–tedesco–danubiano.
Se, un tempo, poteva parlarsi di Europa a due motori, dunque, è forse giunto il momento di aggiornare questo concetto ormai superato e parlare di “Europa a tre motori”: quello meridionale, in affanno e bloccato, nel suo stesso potenziale, da un’evidente incapacità sistemica; quello occidentale, ancora dominante, ma sempre più bisognoso, in ogni sua forma, del suo vicino orientale e, per l’appunto, il motore danubiano, impaziente di portare a termine quel risveglio strategico in atto ormai da un decennio.
Proprio il collegamento con Berlino, pertanto, che vede nell’area centro–orientale europea la sua naturale zona d’influenza, appare fondamentale, ma altrettanto fondamentale sarà il ruolo giocato dal Gruppo di Visegrád, l’alleanza informale fra Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria in grado di riunire gli stati ex – sovietici economicamente più prosperi, formatasi negli anni ’90 e rafforzatasi, nel 1999, con l’istituzione del  Fondo d’Investimento Internazionale di Visegrád, cuore pulsante dell’integrazione e della cooperazione mitteleuropea.
A questo fattore, si collega il secondo punto dell’analisi, quello riguardante la dimensione geopolitica dell’intera questione.
Ad inizio 2013, infatti, il portavoce del Ministero della Difesa polacco, Jacek Sonta, ha avanzato, al tavolo del summit convocato formalmente in vista del Consiglio Europeo che si terrà – con molta probabilità – a dicembre e dedicato al tema della difesa e sviluppo delle capacità militari europee, la proposta che il Gruppo di Visegrád si doti, entro il 2016, di una vera e propria unità da combattimento, già nominata V4 EU BG (European Union Battlegroup) da inserire nel quadro della difesa comune dell’Unione stessa (un’unità, questa, che potrà essere utilizzata anche al di fuori dei confini europei, per missioni di vario tipo, dal peacekeeping alla gestione di crisi umanitarie).
Alla testa di questa coalizione, proprio la Polonia, autentico leader militare regionale (dotatasi, nel frattempo, di un’aviazione d’ultima generazione), e l’Ungheria, la cui moderna ed agile Magyar Honvedség ha già avuto modo di mostrare all’estero le sue molte qualità.
Stratfor, centro studi strategico situato ad Austin, Texas, e guidato da George Friedman, celebre politologo statunitense d’origine ungherese, ha già avuto modo di sostenere che questa decisione sia stata determinata «dalla mutazione dell’assetto geopolitico dell’Europa centro-orientale risalente all’inizio degli anni Novanta, ma soprattutto dal rinato attivismo internazionale della Russia nelle sua vecchia area di influenza, culminato con la guerra in Georgia del 2008 (1) », un conflitto spesso dimenticato dall’opinione pubblica occidentale, ma che è stato capace di mettere in crisi l’intero assetto NATO e la sua relativa partnership con diversi paesi dell’ex blocco sovietico.
 
 
Conclusioni    
 
La Mitteleuropa, insomma, ha ormai preso consapevolezza delle proprie capacità; molte decisioni di politica estera dei suoi esponenti più noti, non ultima la già citata militarizzazione del Gruppo di Visegrád, appaiono non più come azioni avventate, ma come il frutto di una profonda riflessione, maturata proprio in questi ultimi anni di dissesto economico – finanziario, e la cui conclusione è che il destino, non solo economico, ma politico, dell’Europa centro – orientale non sia più legato a doppio filo alle sorti dell’Unione Europea.
Una conclusione, questa, che non può che spaventare la Francia, la cui leadership è in lento declino, e la Germania, la quale tenta, in ogni occasione, di ricompattare il blocco di Visegrád proprio attorno alla centralità della Bundesrepublik all’interno dell’arena decisionale di Bruxelles.
“L’Europa slitta ad est”, verrebbe quasi voglia di affermare, e non è detto che questo lento scivolamento verso oriente non modifichi le capacità contrattuali in seno all’assemblea legislativa dell’Unione Europea, dove molti suoi stati membri appaiono sempre più stanchi e incapaci di portare avanti qualsivoglia questione, poiché sempre più frammentate da pesanti crisi interne, politiche sì, ma soprattutto istituzionali.

 
 

* Stefano Ricci è Dottore in Scienza della Politica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; collabora con diverse testate giornalistiche.    


1)http://www.contropiano.org/news-politica/item/15019

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